PER NON DIMENTICARE IL 04 MAGGIO 1949
Il 4 maggio non è un giorno, è l’eternità
L’eternità del Toro, del suo unicissimo mondo, della sua fierissima gente, del pianto, della rinascita. Questa, la rinascita, eterna e puntuale e inevitabile quanto la morte. Il Torino è sempre risorto, malgrado tutto, oltre gli attentati del destino e dei miscredenti, degli uomini bruti e degli affari. Per questo, il 4 maggio, giorno di lacrime e di sublimi rimembranze, è anche giorno di composta e grata letizia. Si ricorda un’immane tragedia, si celebrano uno squadrone irripetibile e troppi giovani ragazzi uccisi nel fiore della vita. Ma si ribadisce anche, si perpetra e si perpetua il valore di quell’estremo sacrificio.
Costruita pezzo dopo pezzo da Ferruccio Novo, presidente moderno e precursore, la squadra granata più forte di tutte cavalcò il decennio peggiore del secolo breve italiano. Quei Quaranta di guerra mondiale e guerra civile, di dittatura e occupazione straniera, di bombe e torture, paure e miseria, fame e freddo, poi umiliazione e macerie. Il suo galoppo fu interrotto nel mezzo, eppure riprese subito, nel ’46. Divenne simbolo e leggenda già in vita: orgoglio d’Italia, con Bartali e Coppi segno di un popolo piegato ma non spezzato che rialzava la testa, e più gliela schiacciavano e più si rialzava. Non c’erano le coppe internazionali, i Mondiali erano spariti dal ’38, eppure la fama del Grande Torino aveva superato i confini, varcato gli oceani. Bacigalupo Ballarin Maroso... era diventata una cantilena per tutti, persino per chi il pallone neanche sapeva bene cosa fosse. Fenomeno del calcio oltre il calcio, entrato nella vita comune, nei modi di dire, nell’immaginario collettivo. Fece innamorare un intero Paese, persino tanti che erano tifosi veri di altre squadre. A un passo dal suo 5° scudetto consecutivo, quello squadrone si concesse una trasferta in Portogallo per onorare un impegno preso da Valentino Mazzola: il capitano, il più forte senza essere il più dotato tecnicamente. Giocatore universale, di strepitosa sostanza e soprattutto di assoluto, unico temperamento. Mazzola aveva organizzato con il suo amico del Benfica, Francisco Ferreira, un’amichevole per celebrare l’addio al calcio di quest’ultimo. Di ritorno dalla partita (disputata il dì precedente e terminata 4-3 per il Benfica), il 4 maggio 1949, l’aereo giunse nelle vicinanze di Torino poco prima delle 17. Il cielo era bassissimo e livido. Il trimotore Fiat G. 212 delle Aviolinee Italiane, siglato I-Elce, si tuffò nelle nubi per approcciare l’atterraggio, ma perse la rotta. Alle 17.05 uno spaventoso tuono fece girare gli occhi di Torino verso Superga, illuminata nell’agghiacciante crepuscolo innaturale dallo scoppio: l’aereo si era schiantato nel terrapieno alle spalle della Basilica. Trentuno persone: 18 giocatori, 3 dirigenti, 2 allenatori, un massaggiatore, 3 giornalisti (tra i quali Renato Casalbore, fondatore e direttore di Tuttosport), 4 membri dell’equipaggio. Nessun superstite. Il Grande Torino non c’era più: restava il Toro.
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